Ho voglia di montagna. Mi capita spesso. Non delle alte cime innevate, ma della montagna di mezzo. Voglio sentire l’odore dei camini accesi, vedere la legna predisposta per l’inverno, le capre al pascolo, le mucche sdraiate, libere, nell’erba bagnata. Ho voglia di sentire il profumo del muschio, di vedere per terra le foglie cadute da quei grandi alberi che non ci sono nella mia città.
Ho voglia dell’aria di montagna; di quella che si respira parlando con le persone che la vivono tutti i giorni e non nei week-end con lo ski pass in tasca. Non montagne-vetrina ma una montagna qualsiasi, che potrebbe in fondo essere ovunque – ed è ovunque, se pensiamo che il 74 per cento della superficie montana nazionale si attesta proprio tra i 600 e i 1500 m di quota.
Spesso ormai più si sale di quota ed è come se si scendesse. Ritrovi in vetta quello che c’è nelle città (dallo spritz alla musica, alla connessione wi-fi per fare le videochiamate); e allora tanto vale fermarsi prima, attorno ai 1500-1600 mt, ed avere ancora qualcosa a cui tendere lo sguardo verso l’alto.
Ripercorrendo le pagine del libro Montagne di mezzo di Mauro Varotto si comprende bene come montuosità non sempre è sinonimo di montanità. <<La montagna dipende da diversi fattori, da considerarsi simultaneamente e in stretta relazione tra loro: orografia, aspetti climatici, vegetazione e forme di vita umana; nessuno di questi, preso singolarmente, può essere sufficiente a definire un’area montana>>.…<<la natura profonda delle montagne di mezzo sta proprio nella relazione tra montuosità naturale e montanità culturale>>. La vita dei montanari non è solo montuosità, ma relazione, economie, costumi, fatica, legami, economie circolari.
Un libro molto interessante, che parla della montagna per come la vediamo noi, e per come è invece nella realtà. Per capire cosa le stiamo facendo, trasformandola nei soliti divertifici ad uso e consumo di chi vuole scappare dalla città per il fine settimana ma la vuole allo stesso tempo anche ritrovare lì, a 2000mt (con annessi ristorantini giappo, negozietti very stylish, centri massaggi e altri obbrobri metropolitani ). Il culmine lo abbiamo toccato pochi mesi fa quando in vista di presunte gloriose Olimpiadi abbiamo prima disboscato, poi creato piste inutili per poi far nevicare artificialmente. Il tutto per pochi giorni di business. Se un tempo l’oro bianco era nel latte fresco, nei formaggi, ora è nella neve, sempre più finta vista l’emergenza climatica che non si arresta. Non mancherà molto e creeremo delle piste indoor in montagna, quasi a vendicarci di questa natura capricciosa e per mettere in chiaro chi è che comanda su questo pianeta. Penso in parallelo alla corsa contro il tempo che si fa lungo le coste italiane, che franano anno dopo anno, ma non per salvare la natura o la macchia mediterranea, bensì i ristoranti e i lidi che sono stati piazzati lì a pochi metri dal mare.
Un ulteriore rischio di cui parla il libro è dato dall’abbandono delle montagne, che non dipende dalla fatica o la durezza della vita di montagna quanto più dalla lontananza dalle grandi città, che sempre di più influenzano ed alterano le economie della montagna. E non è il fenomeno in sé ad essere preoccupante ma come noi pretendiamo di dover riempire questi paesi vuoti, da cosa vogliamo metterci dentro.
L’autore invita ad abitare LA montagna e non IN montagna, sottolineando come bisogna ritornare a sentirsi parte della comunità, con politiche e azioni attive e partecipative, andando oltre i balconi fioriti della propria abitazione.
Me lo auguro anche io, visto che il declino lungo le nostre coste marine ormai è irrefrenabile, dove tutto è finto, modificato, snaturato, plastico (me lo ricorda ogni singola palma finto tropicale piazzata di fronte al mare) per cui non ci resta che guardare verso le aree interne di questo nostro bellissimo ma fragile Paese e sperare nell’umanità della montagna.