Mettetevi comodi sul divano e leggete questo libro

Mettetevi comodi sul divano e leggete questo libro. È un libro di storia della bicicletta, ma mica solo di quello. Parla di noi italiani, di quello che eravamo e di quello che siamo. Di come questo incredibile mezzo di trasporto abbia da sempre, fin dalla sua timida apparizione, accompagnato e raccontato la nostra storia. Un libro che deve essere letto anche se non si va in bicicletta.

“Attraverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia” Gianni Brera

Decisamente scomode, strane, quasi antiestetiche, sono le prime biciclette che appaiono alla fine dell’Ottocento in Italia. Per guidarle bisogna quasi essere degli equilibristi. Solo nel 1885 arriva dall’Inghilterra  il modello safety che tutti noi conosciamo, con le due ruote quasi uguali che consentono di mettere i piedi a terra, un telaio dritto al centro, e un manubrio più maneggevole. A questo modello si aggiungeranno nel 1889 i pneumatici inventati da Dunlop, e nel 1891 la camera d’aria inventata dai fratelli Michelin.

Il primo “biciclo” inventato in Italia? Quello di Bianchi nel 1885.

“Cavallo di legno, celerifero, velocifero, draisina, michaudina, velocipedo, bicicletto”: sono alcuni dei nomi con cui veniva chiamata la bicicletta.

primi prototipi

primi prototipi

Da prototipo diventa mezzo di trasporto. Addirittura il Touring Club, nato nel 1894, si pone l’obiettivo di educare i cittadini e promuovere la conoscenza del territorio proprio grazie all’uso della bicicletta.

Questo non vale però in tutta Italia perché le differenze ci sono sempre. La modernità non appartiene al meridione; la chiesa grida all’impudicizia soprattutto per impedirne l’uso ai prelati e, chiaramente, alle donne, e la classe operaia la vede ancora come un lusso per pochi capitalisti borghesi. Nei primi del Novecento i prezzi si abbassano e la classe popolare finalmente se ne appropria, mentre le classi più agiate iniziano già a sfoggiare le prime automobili.

operaie in bicicletta

operaie in bicicletta

In quegli anni il grande slancio viene dato da testate giornalistiche, che come accade all’estero, iniziano a lanciare delle competizioni, prima solo locali e come svago per la domenica, poi sempre più internazionali come il Giro d’Italia. Eccellenti ciclisti, italiani e stranieri, diventano i nuovi modelli da seguire. Lo sport della bicicletta diventa business, metafora della velocità di una Nazione avviata verso la sua prima rivoluzione industriale.

Puntualmente arriva il Fascismo, che, in cerca di eroi nostrani e per accentuare il mito della velocità come sinonimo di questa Nazione tanto evoluta e senza eguali, fagocita tutta la bontà di questa neonata disciplina. Ironia della sorte, la bicicletta sarà anche protagonista della parabola discendente di questa dittatura. Unico mezzo possibile durante l’occupazione nazifascista (il carburante era requisito e comunque troppo costoso, così come le autovetture), ogni giorno centinaia di messaggi cifrati correvano nascosti nel tubo centrale da un nucleo di partigiani all’altro. Senza l’aiuto delle due ruote, e soprattutto grazie alle tante donne partigiane che si muovevano in bicicletta rischiando la propria vita,  probabilmente la Resistenza non sarebbe stata la stessa e non avrebbe portato alla nostra libertà.

Sono circa 800 gli ebrei salvati grazie all’aiuto di Bartali, che correva dalla stazione di Terontola ad Assisi, nascondendo nel tubo del telaio documenti e fototessere. Per questo venne dichiarato Giusto tra le nazioni.

Dopo la devastazione del conflitto mondiale, arriva la ripresa economica. Il paese, desideroso di progresso e nel pieno vortice del consumismo, dismette la bicicletta , che rimane solo uno sport, e inonda le strade di automobili; anche troppe, visto che nel 1992 in California nasce il movimento Critical Mass, che urla la necessità di una nuova Resistenza per salvaguardare l’ambiente, ponendo un limite al traffico automobilistico impazzito che invade le città e la vita delle persone.

Che cos’è oggi la bicicletta?

Marc Augé parla della necessità di un nuovo umanesimo, di una nuova rivoluzione antropologica che restituisca alla bicicletta, dopo i fasti di un agonismo degli ultimi vent’anni spinto anche oltre il limite, il suo ruolo centrale, una possibilità per salvare il pianeta, ormai nella morsa del riscaldamento climatico senza limiti, e forse anche salvare noi stessi, prede della nostra stessa frenesia, perché ci obbliga ad andare secondo il nostro ritmo, il nostro respiro, obbligandoci ad essere non più attori passivi dei nostri spostamenti e delle nostre vite, ma nuovamente protagonisti.

Leggete questo libro. Regalatelo. Parla di noi.

“Storia sociale della bicicletta”, Stefano Pivato.

nda. le foto sono tratte dal libro.

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