Un libro breve, questo di Le Breton, che parla del camminare in realtà attraverso le parole di indigeni, di storici, di camminatori e filosofi del passato. Mentre per noi moderni spesso il camminare è un gesto trasgressivo, un volersi staccare per un attimo dalla modernità, per altri era semplicemente necessario, necessario per andare da una parte all’altra anche di una porzione piccola di territorio, necessario per pensare, per capire.
Tutto è cambiato quando l’uomo, alzandosi in piedi nella posizione eretta, ha liberato l’uso delle mani e del viso, dichiarando l’arte del camminare come un vero e proprio trionfo del corpo. Non siamo alberi, non abbiamo radici che ci piantano al terreno. Noi siamo fatti per muoverci. E se in quest’epoca camminare non è più il modo principale per muoversi, resta per noi almeno un momento per noi stessi nel tempo libero.
Le Breton in questo libro celebra la gioia del pensare e del camminare, della riflessione, dell’ascolto, del silenzio; un modo per reinventare il tempo e lo spazio attorno a noi.
Già in passato, grandi scrittori hanno esplorato il piacere del camminare. Rousseau diceva che <<camminare è un fatto solitario, un’esperienza di libertà, una fonte inesauribile di osservazioni e di fantasticherie, un lieto godimento delle strade propizie agli incontri inattesi, alle sorprese>>. Grande fautore delle camminate solitarie, Rousseau ricercava contemplazione, abbandono, silenzio. Stevenson, addirittura, ha teorizzato il viaggio in solitudine: in compagnia si potevano fare delle scampagnate, ma per godere veramente di un paesaggio bisogna essere da soli.
Thoreau non era meno refrattario all’idea della camminata in compagnia. Le sue camminate non erano mai banali, non era ma da solo, perché in perfetta comunione e intimità con la natura.
Lanzmann ironizzava sul fatto che di fronte all’ipotesi di partire in compagnia per un cammino di dieci giorni, avrebbe avuto la certezza di partire con amici e ritornare con dei nemici.
Hazlit, telegrafico, diceva che <<non sono mai meno solo di quando sono solo>>.
“Sottomettendolo alla nudità del mondo, la marcia sollecita nell’uomo il senso del sacro”
E oggi? Perché camminiamo oggi? Per trasgredire alla monotonia? Per ribellarci ai ritmi incalzanti ma vuoti? La modernità si è trasformata in un insieme di rumori assordanti e odori nauseabondi, che dobbiamo fuggire in collina o in montagna nel fine settimana per disintossicarci, per ritrovare noi stessi. Addirittura per ascoltare i nostri pensieri. Il silenzio è assenza di rumore, è quella “zona franca non ancora invasa dal rumore cittadino”. Ricerchiamo il silenzio per denudarci, debellare il caos e ripartire da zero. Ma soprattutto camminiamo per avere idee, risposte.
“Nel bosco, nel deserto, sul mare o tra le montagne, il silenzio compenetra a volte cosi perfettamente le cose che gli altri sensi in confronto appaiono inutili o superati. La parola è inadeguata a esprimere la forza del momento o la solennità dei luoghi”.
E poi un viaggio a piedi si può scrivere, raccontare. A chi mai verrebbe in mente di scrivere di uno spostamento fatto in macchina? Scrivendo ci ricordiamo di quello che abbiamo vissuto, visto da vicino, conosciuto; scriviamo delle nostre emozioni, delle impressioni, degli eventi lungo il nostro cammino. Dal finestrino di una automobile non si ha percezione di nulla; è solo una questione di minuti e distanze .
I nostri viaggi, come li facciamo, dove andiamo, dicono tutto di noi. Con le sue parole, Le Breton, ci esorta a camminare, a prenderci del tempo per noi stessi, anche se non è l’esito del cammino ciò che conta, ma solo l’averlo percorso.
Non siamo noi che facciamo il viaggio, ma è il viaggio che ci disegna , ci annulla e ci reinventa.