Camminare come pratica estetica

Non sapevo avesse un nome quello che ho fatto per anni, ma quando l’ho scoperto mi sono sentita in ottima compagnia!

Durante gli anni universitari, per staccare dalla frenesia studio- esami, chiudevo il libro, spegnevo la luce e uscivo a camminare. Abitavo in un quartiere di Roma, San Giovanni, che mi permetteva di vedere la stratificazione delle varie epoche – dalla lunga via Appia nei pressi di porta San Sebastiano, ai palazzi del barocchetto romano di piazza Tuscolo, fino alle palazzine anni ’70 delle stradine un po’ più periferiche – osservando come l’uomo abbia costruito nel tempo una città sopra un’altra città. Quando mi sono ritrovata fra le mani Walkscapes, di Francesco Careri, sono tornata indietro a quegli anni universitari. Mi piaceva camminare senza meta, “leggere la città”, per capire come, mille anni prima di me, altri uomini, camminando e muovendosi, esattamente come me, abbiano trasformato la città.

Da sempre “il camminare ha prodotto architettura e paesaggio” scrive l’autore “e quando non lo hanno fatto gli architetti o gli urbanisti, lo hanno fatto i poeti e i filosofi, cercando sempre di vedere quello che non c’è, per farne scaturire qualcosa”. Si cammina e si formano delle linee (le strade) e poi degli spazi, che diventano luoghi quando le si percorre. Jackson scriveva che “le strade non conducono più soltanto a luoghi, sono esse stesse luoghi”.

Camminando, muovendosi nello spazio si costruiscono luoghi, si lasciano delle tracce.

L’uomo primitivo stesso, si spostava per necessità -cibo, agricoltura, pastorizia- e muovendosi ha modificato il paesaggio. I menhir, ad esempio, di cui il Salento come altre parti d’Europa è pieno, sono sempre stati studiati in relazione al perché venivano così conficcati nella terra – quindi in relazione allo studio dei culti del sole, della fertilità, riti di passaggio etc.- ma quasi mai al dove venivano collocati. Queste grossi monoliti verticali non sono stati altro che la risultante della prima trasformazione fisica del paesaggio da parte dell’uomo, che aveva solo bisogno di segnalare alcune direttrici – a lui utili per la pastorizia, il nomadismo, il commercio, la caccia- e quindi altro non erano che dei segnali da scrivere sul territorio, nello spazio.  Fin dai tempi del Neolitico quindi gli spazi dello stare si intersecano con gli spazi dell’andare, e anche le nostre città sono cosi; spazi nomadi (vuoti) con spazi sedentari (pieni).

Centinaia di anni dopo, poeti e filosofi hanno sentito il bisogno di camminare nelle proprie città apparentemente senza meta, come forma di pratica estetica. Per Wikipedia la parola flâneur,  indica “il gentiluomo che vaga per le vie cittadine, provando emozioni nell’osservare il paesaggio”. Quante volte anche noi, all’interno di una folla di persone, ci siamo ad un certo punto staccati per osservare in solitudine la vita e la città dal di fuori? Ed è quello che ho capito di aver fatto a Roma negli anni universitari: l’arte di andare a passeggio per la città, come esercizio dello sguardo, del proprio sentire in relazione all’ambiente esterno.

“Flânerie è l’arte di perdersi e vagabondare senza meta per aprirsi alla sorpresa e alla meraviglia dell’incontro con il mondo esterno. E’ un atto inutile, non necessario e senza scopo. Ma indispensabile per lasciare spazio ad altro”

Passano altri anni e l’arte del camminare come pratica estetica viene ripresa dal Dadaismo, in forma però più irriverente: il 14 aprile 1921 a Parigi, “alle tre del pomeriggio e sotto un diluvio torrenziale, si inaugura la stagione delle escursioni urbane nei luoghi banali della città”. La città risulta ormai banale, mentre il movimento e la velocità si affermano come nuova presenza urbana; l’opera non sta più nella visita in sé, ma nell’azione.      Il viaggio, man mano, si trasforma in una sperimentazione di scrittura automatica dello spazio reale, una sorta di erranza letterario campestre e urbana che permette di costruire delle mappe mentali tridimensionali del paesaggio.

La wilderness che aveva animato poeti, naturalisti e filosofi come Emerson e Thoreau, ambientata quasi sempre in grandi boschi del nord America, viene traslata nelle città, in questi nuovi spazi antropizzati dove l’uomo vive in uno “stato selvaggio, ibrido e ambiguo.”

Buona lettura e buon vagabondaggio.

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Comments

  • Massimiliano

    Marzo 20, 2024 at 21:22
    Reply

    Molto interessante! Non conoscevo il libro citato

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